La tempesta scopa su New York

La traduzione viene spesso malinterpretata come esercizio di conoscenza di singole parole in più lingue. Molto meno spesso si considera, invece, che un bravo traduttore non trasferisce parole, ma significati specifici a un determinato contesto.
Esiste, cioè, un linguaggio specifico ad ogni ambito. E’ ovvio a tutti che esiste un il linguaggio legale, un linguaggio tecnico, uno per i titoli di giornale e uno per le ricette di cucina. Non sempre però ci si accorge di quanto l’ambito conferisca significato al termine, e che i singoli termini non possono, nemmeno per definizione, definirsi slegati dal loro contesto.
Un lettore madrelingua non fa fatica a comprendere che il significato di una parola (per esempio, unità), assume diversissimi significati a seconda dell’ambito.
Se dico “l’unità mobile di Cassano d’Adda” forse mi riferisco a una squadra di polizia o del pronto soccorso; se avverto di “non scollegare l’unità” magari sto parlando di un’apparecchiatura elettrica; se dico “unità impossibile nella lega” non parlo di leghe metalliche ma di un partito politico, se dico che ci vogliono “due unità di latte per unità di zucchero” si tratta di unità di misura – e via dicendo.
Questa comprensione del significato a seconda dell’ambito avviene, appunto, senza sforzo. E la molteplicità di significati non viene quasi avvertita. I termini non vengono percepiti come “vaghi e ambivalenti” perché all’interno del loro contesto hanno un senso ben delineato. E questo porta a pensare che le parole siano proprio questo: insiemi ben delineati di significato. Ma non è affatto così.

Unità, per dire, comunica per forza l’opposto di separazione o scioglimento o isolamento: questi sono evidentemente confini molto labili, ma non siamo abituati a pensarla così. E’ solo quando ci si imbatte nella necessità di rendere quello stesso termine in una parola equivalente in una lingua straniera che ci si accorge di quanto un termine sia in realtà fluido, astratto.
La traduzione quindi obbliga a fare un esercizio di ‘dissezione’ del termine a seconda del suo ambito.
O meglio, spinge a comprendere un termine in quanto parte di  un determinato ambito, e non avente una valenza univoca.
Il che porta a capire che non si può “tradurre un testo in inglese”: si traduce una ricetta italiana in “ricetteseinglese”, oppure un titolo italiano in “titolese inglese”.

I titoli di giornale offrono moltissimi spunti di riflessioni.
Dovendo contenere più informazioni possibili in meno parole possibili, i titoli si liberano di molto “contorno”, e frasi come “Napolitano: più crescita” implicano una serie di cose non dette che il lettore però percepisce. Cioé, che il Presidente della Repubblica Napolitano ha dichiarato che è necessario o che auspica che ci si dedichi alla crescita del paese.
I titoli delle testate sportive sono poi i templi della metafora: Il Napoli vola e vede la Lazio;  Show di Buffon; Il Milan in ginocchio. E così via.

E’ ovvio che per tradurre questi concetti non si può usare una traduzione letterale.
Ma nemmeno l’uso delle corrispondenti metafore a volte funziona – si deve tradurre il linguaggio giornalistico in linguaggio giornalistico, non “in inglese, in spagnolo, o in francese”. Si deve quindi attingere alle regole implicite che contraddistinguono un certo ambito linguistico. In inglese, per esempio, vengono a mancare pronomi, articoli e preposizioni: London blast survivor testifies. Plane crash kills 11. Afghan forces kidnap 16. I tempi dei verbi sono semplificati, l’infinito corrisponde al futuro (Mayor to open new school), il presente al passato (Passerby sees man jump), etc.

Così l’onnipresente “L’Italia nella morsa del ghiaccio” non può diventare “Italy in the grip of ice”. E “storm sweeps over NY” non sarà “la tempesta scopa su new york”. O almeno si spera.